Abbiamo ricevuto questo comunicato stampa dal Coordinamento nazionale dell’Unione Donne in Italia, che abbiamo deciso di pubblicare. “Ancora una volta la follia, la passione, hanno fatto morire una donna e un bambino. A Milano, Libanny Meijas Lopez e suo figlio di tre anni sono stati sgozzati e uccisi, martedì 4 Marzo. La vendetta sulla prole fa parte dei gesti di chi considera le donne proprietà, le parole usate dai media per renderne conto sono intrise di fatalismo, forse meno truce quando si tratta esclusivamente di un bambino, e di una sorta di severa commiserazione. Cosa dobbiamo pensare del proclamato progresso culturale e civile, determinato dal passaggio di una terminologia femminista al linguaggio comune, se i termini rimangono inerti in una nicchia teorica che poco scuote vecchie certezze e poco informa il modo di concepire la comunicazione?
Dobbiamo pensare ed ammettere che sollecitare intere categorie, professioni, partiti, sindacati a dichiararsi contro la violenza maschile, come hanno fatto, non rappresenta né prelude un cambiamento. Tranne l’assunzione di parole come femminicidio in poche e specifiche occasioni, il lessico corrente e i gesti di governo assomigliano alla riedizione in chiave moderna dei gesti di sempre. Lavoro, famiglia, patria non sono cambiati.
Seguire la scia retorica delle parole è facile ed a volte conveniente: la struttura, o semplicemente il coro d’insieme, proteggono la segretezza di pensieri e gesti che pure invece continuano a mandare segnali di connivenza agli assassini, ai violentatori, ai picchiatori che, infine, provvedono a tenere in ordine “la metà indisciplinata del mondo”.
Le leggi e le regole, lo vediamo, incarnano soprattutto l’esigenza di confermare un sistema dove le donne sono controllate, magari benevolmente, ma controllate. La continua emergenza nella quale i poteri sanno ben muoversi giustifica tutto e soprattutto permette di liberarsi agevolmente dalle fole femministe, sottigliezze che fanno perder tempo.
Non siamo quelle che hanno esultato per qualche goffa dichiarazione di condanna o per qualche altrettanto goffo tentativo di normare il contrasto alla violenza femminicida, non siamo quelle che pensano che il poco sia meglio di niente. Sappiamo, infatti, che il poco è l’imbiancatura dei sepolcri.
Non abbiamo trascurato nulla da parte nostra, ed abbiamo l’abitudine di prendere in parola chiunque si pronunci anche genericamente, ma lo schiamazzo non aiuta: alla fine non si sa chi ha detto cosa.
Certo è che chi si è esposta in prima persona ha fatto subito ciò che si deve ed ha sortito molto più: più di chi lavora per muovere apparati che ostentano qualche piccola concessione e che nel mentre la elargiscono già provvedono a renderla inesigibile.
Sembra passato molto tempo, ma si tratta di meno di un decennio da quando Maria Luisa Busi, nel corso di un telegiornale della Rai, raggiunta da un nostro appello, alzando gli occhi da una velina che parlava dell’ennesima violenza disse testualmente “Io questa notizia non la leggo così”. Si trattava evidentemente di una nota che parlava di come una donna avesse provocato la violenza subita. E lei non la lesse così! Si assunse subito una responsabilità, che non sappiamo quanto abbia pagato.
Le giornaliste e i giornalisti nelle loro strutture, nelle testate che li impiegano hanno dichiarato attraverso le loro rappresentanze di volersi ispirare ad un modello comunicativo che tenga conto del fatto che la violenza sessuata rappresenta un pilastro delle strutture patriarcali, che tenga conto del fatto che le parole non sono mai neutre. Al riparo di altisonanti e nobili intenti collettivi, invece, consentono che il femminicidio sia presentato come un fallo di reazione in una partita tra pari. Lo fanno con parole come follia e disperazione, gettando una parte della responsabilità sulla vittima: perché cattiva o semplicemente sciocca. Le donne possono come gli uomini essere cattive e sciocche, ma solo per loro è prevista e tollerata l’interdizione civile della libertà e la pena di morte.
La RAI, Repubblica, La Stampa, Il Corriere della sera, Il Mattino, Fatto Quotidiano, Il Manifesto, Il sole 24 ore dicono di essere d’accordo con noi: quando i loro giornalisti e i loro addetti alla programmazione editoriale saranno anche loro d’accordo con noi sarà un piccolo discreto progresso e forse non dovremo più ascoltare e leggere cronache e riflessioni che preludono alla clemenza verso dei giudici verso i colpevoli.
Dire basta non serve più, è una parola pronunciata troppe volte. Chi deve abbia finalmente il coraggio di misurarsi con gli impegni presi, magari rischiando di far scandalo come noi facciamo avendo sempre il vento contrario.
Coordinamento Nazionale UDI – Unione Donne in Italia
Stefania Cantatore