La Cina contro la violenza domestica

Donna con ombrelloA fine 2012 Xiong Jing, operaia di 24 anni, ha lanciato la 1° campagna nazionale per la parità di genere inondando la rete di immagini sconvolgenti che documentavano la violenza maschile contro le donne. La censura ha provato a “ripulire” Internet, ma il sostegno popolare è risultato tanto massiccio che la leadership rossa è stata costretta ad alzare il velo sulla realtà e a correre ai ripari per aggiornare la seconda economia del pianeta alla consolidata sensibilità del mondo globale. Risultato: 10 mila firme di sostegno al movimento di Xiong Jing in poche ore e prima legge contro le violenze sulle donne presentata all’Assemblea nazionale. I corpi tumefatti delle donne cinesi, esibiti on line dalla giovane operaia, sono destinati ad entrare nella storia nazionale come i motori popolari della prima riforma democratica accettata da Pechino, che dal primo gennaio 2016 punisce così gli abusi domestici.

L’Assemblea nazionale del popolo, oltre ad approvare in via definitiva la fine della politica del figlio unico, ha varato per la prima volta una legge contro “ogni forma di violenza domestica”, estesa sia al coniuge che al convivente: saranno considerati reato la violenza fisica ma anche quella psicologica. Gli ordini di protezione personale dovranno essere eseguiti dalla polizia entro 72 ore dalla denuncia, depositabile anche da vicini ed associazioni. Per la Cina, fondata sulla piramide del patriarcato confuciano, la violenza di genere non esisteva; il passo più difficile è stato ammettere il dramma sommerso della discriminazione, sofferta e taciuta dalle vittime.

L’aspetto sorprendente è che oggi a essere “rieducati”siano i maschi, il genere unico super – selezionato dal 1979, improvvisamente denunciati come “dissidenti” dalla nomenclatura che li ha generati e che avverte ora l’esigenza di rendersi presentabile, oltre che all’estero, anche all’interno del paese. E’ un passo decisivo ma il metodo resta quello antico della condanna. Le scuole “per buoni padri e buoni mariti”, aperte fin nei villaggi rurali, non sono ad iscrizione libera ma vengono imposte dalle autorità come “istituti correttivi”, una sfida alla maggioritaria ostilità maschilista. Gli allievi sono tutti colpevoli di abusi: ma va detto che sono a loro volta tutte vittime fin dalla nascita, o testimoni delle risse tra genitori.

Una tragedia umiliante anche all’interno dell’Asia, dove il maschilismo resta la normalità dei rapporti sociali. Una donna su quattro in Cina è vittima di abusi. Nove mogli su dieci vengono picchiate dai mariti. Su centinaia di milioni di atti di violenza domestica, non più di 40 – 50mila vengono denunciati ogni anno. La nuova legge per ora non tutela le coppie gay, realtà ancora tabù, tuttavia la strada però adesso è aperta e la società cinese, reduce dagli aborti forzati, da un quarto di donne – schiave e dal reato di omosessualità, si appresta a cambiamenti epocali.

 

Fonte: la Repubblica 6/01/16 – corrispondente a Pechino, Giampaolo Visetti.

 

  • Aggiornato il 18 Gennaio 2016