La violenza non è una questione privata. Non lo sono le urla, i lividi, gli atteggiamenti ossessivi, gli inseguimenti. Qualsiasi violenza sulle donne, ha sottolineato più e più volte l’Ue «riguarda la società nel suo complesso». E allora? Cosa ci trattiene dall’intervenire se una coppia litiga violentemente sul ciglio di una strada? Cosa ci impedisce di intrometterci se un’amica ci racconta di uno schiaffo del partner?
Nelle aule affollate dei tribunali, in alcune salette asettiche dei servizi sociali spesso si parla ancora di «conflitto familiare». Non botte, lastre e fratture, pressioni psicologiche o gelosia ossessiva. Come se la parola violenza facesse paura. Come se ci fosse ancora una strisciante reticenza a dire le cose come stanno. Nonostante le scarpette rosse, nonostante le campagne contro i femminicidi, nonostante gli occhi neri delle pubblicità progresso e i drappi rossi appesi in questi giorni.
Ma se le istituzioni poi, al di là delle parole, vanno avanti secondo i dettami della legge, c’è invece chi fatica ancora a riconoscere i segnali e a «impicciarsi». Siamo tutti noi: amici, parenti, vicini di casa, conoscenti. Noi che siamo parte di quella rete di rapporti umani che circonda le donne vittime di violenza. Proprio noi che assistiamo inconsapevolmente all’escalation giorno dopo giorno, spesso non solo non siamo capaci di individuare le spie d’allarme, ma le sottovalutiamo.
Indifferenza? Superficialità? Non proprio.
È piuttosto quell’umana consuetudine che ci porta erroneamente a pensare che sia giusto non intromettersi. Per anni, secoli, attraverso stupidi e insignificanti modi di dire, si è insinuata in noi la convinzione che «tra moglie e marito è meglio non mettere il dito», che «i panni sporchi si lavano in famiglia». Ma quando in famiglia, nella coppia, nella relazione c’è un qualche tipo di violenza, fisica o psicologica, bisogna avvalersi del sacrosanto diritto di impicciarsi.
Chiedere, fare domande precise e se necessario, agire anche al posto della vittima. Perché la rete di rapporti umani che circonda la donna che subisce violenza può fare la differenza.
Noi possiamo fare la differenza. «Anche se non è affatto facile — ammette Loredana Taddei, responsabile delle politiche di genere della Cgil —. Basti pensare che persino per le vittime, a volte, è complicato percepire il pericolo reale. E noi che stiamo a guardare spesso riconduciamo tutto alle dinamiche di coppia e al rapporto amoroso. Invece va fatto uno sforzo per individuare sin da subito le situazioni pericolose e denunciare». O convincere chi sta vivendo un rapporto pericoloso a chiedere aiuto.
«È per questo che parliamo di problema culturale perché nonostante tutto la violenza non è ancora percepita nella sua gravità — aggiunge Titti Carrano, presidente dell’associazione D.i.r.e — e questo è un problema grave. Se si è amiche o conoscenti di una donna che vive una situazione critica bisogna insistere, capire di più, invitarla a rivolgersi a un centro antiviolenza dove il percorso di difesa e libertà viene costruito insieme a lei».
Ancora più netta è Teresa Manente, avvocata penalista e responsabile dell’ufficio legale Differenza donna: «La cultura maschilista uccide più della mafia e davanti alla violenza sulle donne, dobbiamo sentirci tutti in dovere di denunciare. Le direttive internazionali — aggiunge — stabiliscono che la violenza sulle donne è un fenomeno sociale e chi non denuncia si rende complice. Le leggi ci sono già, si può fare anche una segnalazione anonima all’autorità giudiziaria. I reati gravi sono procedibili d’ufficio. Messaggi di negazione della libertà femminile, prevaricazione, oppressione non sono amore».
Fonte: 27esimaora.corriere.it