L’adolescente stuprata e rimasta incinta sbarcata tra i migranti a Palermo qualche giorno fa ha riportato l’attenzione sulle violenze cui vengono sottoposte le donne prima, e durante, il viaggio verso un’Europa promessa, e mai mantenuta. Un quadro terribile di soprusi, in cui quello dell’abuso sessuale è solo uno dei molti, atroci, traumi, sia fisici che psicologici, che sono costrette a sopportare. Un’esperta del settore, Irene Santoni, coordinatrice di Free Woman – onlus che si occupa della tutela dei diritti e accoglienza delle donne immigrate – ci ha aiutato a risalire la lunga scia di dolore che parte dal cuore dell’Africa e arriva al centro del Mediterraneo, tra ricatti, minacce e morte.
Cosa succede durante il viaggio a queste donne? «Innanzitutto, va detto che il viaggio non è solo la traversata sul barcone, ma è composto da tanti step prima dell’arrivo in Italia. Molte di loro arrivano dal Gambia, dove c’è una dittatura, e dalla Somalia, ma la maggior parte proviene dalla Nigeria, che ha un tipo di emigrazione prevalentemente femminile: non solo, infatti, sono per lo più donne a lasciare la loro terra, ma sono donne anche quelle che organizzano la tratta, le madame che gestiscono il traffico. A loro, prima di partire, si fa giuramento di fedeltà, che va rispettato “se vuoi che non accada nulla alla tua famiglia” si sentono dire. Molte di queste donne sono già mamme che vengono minacciate con l’uccisione dei figli se non stanno ai patti».
E dalla Nigeria, dove vanno? «Una tappa fissa è Agadez, al confine tra Libia e Nigeria. Spesso si arriva di notte, a bordo di pulmini che vengono fermati, le donne sono portate in mezzo al deserto, dove avviene il primo stupro di gruppo. E in questo buio iniziano a scomparire come individui: è la prima fase di annientamento della loro persona. Poi vengono vendute alle connection house, una specie di bordelli dove vengono incatenate e violentate. A questo punto non c’è scelta: o accetti o muori. A dar loro la forza di sopportare è il pensiero della famiglia nel loro paese d’origine che ha fatto un investimento enorme per il viaggio, circa 30-40 mila euro. Non possono mollare».
Poi cosa succede? «Da Agadez vengono condotte sulle coste libiche e, se vogliono partire per l’Italia, devono pagare ancora. Ma a quel punto, devono sperare di non salire sul barcone che gli scafisti hanno deciso di affondare dopo aver intascato il denaro. Se, invece, capitano su un mezzo che hanno interesse a far arrivare a destinazione per sfruttare le persone a bordo, faranno un viaggio costipate dentro un barcone, continuamente minacciate di morte. E in mare il confronto con la fine è costante».
Come arrivano a destinazione queste donne? «Non si sentono più esseri umani. Sono annientate e, prima che di asilo politico, hanno bisogno che venga riconosciuto loro lo status di persona».
Qual è il sentimento prevalente in loro quando le incontra? «La rabbia. Soprattutto nei confronti di se stesse in quanto pensano di essersi meritate tutto quello che è capitato. Questo è quanto fanno credere loro, per alimentarne la sottomissione. Il compito di noi operatori è aiutarle a attraversare la tempesta che hanno dentro, senza affondare con loro. Non è facile».
Perché? «Perché devono confrontarsi con la frustrazione del fallimento. Dopo tutta la fatica che hanno fatto non trovano il sogno dell’Europa che era stato promesso loro prima di partire: questo le distrugge. E, in più, sono costrette a soffocare il trauma di quanto hanno vissuto: non possono parlarne con la famiglia d’origine, con le loro madri o figlie. Dall’Africa non credono al fatto che si trovino in una condizione di indigenza, pensano che si siano arricchite, che non vogliano mandare i soldi a casa».
Capita che arrivino da voi incinte? «Sì, e se la gravidanza è frutto di stupri subiti durante il viaggio soffrono terribilmente. Chi ce la fa abortisce, ma chi ha superato il tempo gestazionale per farlo, scappa o cerca situazioni che mettono in pericolo se stessa e il bambino».
Sono situazioni molto dure, estreme. Come operatrice dove trova la forza per affrontarle e non rimanerne sopraffatta? «Non è facile, serve tanta formazione, serve prepararsi molto per essere in grado di reggere il dolore. È indispensabile, perché se si accorgono che non sei in grado di sostenere la situazione, si chiudono e non si fanno aiutare».
Come fa a lasciare fuori dalla porta tutto questo dolore la sera quando rientra a casa? «Mi aiuta una frase di un mio insegnante: la mente umana può sopportare qualsiasi dolore se viene sostenuta dopo averlo provato. Alla fine della giornata so che con il mio impegno e quello delle persone impegnate nell’accoglienza insieme a me posso contribuire a alleviare questa sofferenza. Ogni giorno per noi è un viaggio all’inferno, ma facciamo di tutto perché non sia di sola andata. Investiamo tutto sul ritorno».
Fonte: d.repubblica.it