Il termine mancava, ora c’è. Già pronto a fare ingresso tra i neologismi dei dizionari: “ombrelline”. Ragazze in piedi con l’ombrello in mano, a proteggere dal sole relatori maschi.
Dopo veline, ragazze immagine, donne-oggetto, si aggiorna col parasole femminile il catalogo dell’ordinario maschilismo. E siccome le parole contano, ci pensa il sindaco di Pimonte, Michele Palummo, a rafforzare lo spirito del tempo: definendo uno stupro di gruppo, dodici ragazzini contro una quindicenne, una bambinata. Birichinata, bricconata: poco più che una marachella.
I social in rivolta. Il sindaco si ravvede. La verità è che la calura estiva fa da spia allo Zeitgeist: il maschilismo è forte e più che vivo che mai.
«Temo che non ci sia nulla di nuovo», commenta la sociologa e filosofa Chiara Saraceno, da sempre attenta ai temi della parità, e da poco in libreria con “L’equivoco della famiglia” (Laterza). «O meglio: il problema è esattamente questo: che in termini di uguaglianza uomo-donna non cambia mai nulla. E ciò che è ancora più grave è la mancanza di consapevolezza delle donne più giovani».
“Questa foto è una brutta immagine. Sei donne che reggono l’ombrello ad altrettanti uomini ci fanno fare un salto indietro. Come si fa a non rendersene conto?”, ha scritto Laura Boldrini su Twitter. Ma emblematica è la risposta di una delle studentesse che reggevano l’ombrello nel corso del dibattito politico, a Sulmona: “Che male ho fatto? Non mi sento umiliata”.
«Certo: la studentessa ha considerato quel gesto un atto di gentilezza. Chissà perché, però, il ruolo del volontario tocca sempre alle donne. La verità è che non si è riusciti a fare maturare sufficientemente la consapevolezza che certe cose non si fanno. Né tra gli uomini né tra le donne».
E il sessismo è diventato ordinario. Così diffuso da risultare normalità.
«Esattamente. E se nella sensibilità comune gesti così finiscono per essere accettati, sa cosa succede? Che chi, come me, per tutta la vita si è battuta contro le discriminazioni, finisce per tacere. Mi succede sempre più spesso: rimango zitta, mi autocensuro, perché alla fine continuare a battersi contro gli stereotipi stanca davvero».
Sta dicendo che dobbiamo rassegnarci al fatto che nulla cambi?
«No. Ma una cosa è certa: il maschilismo è sdoganato. E la battaglia è sempre più difficile perché si nutre della presunzione che in fondo alle donne vada bene così. Che per il fatto di essere libere di agire, di vestire, di determinarsi, in fondo accettino come del tutto normali comportamenti maschilisti: “Non facciamo drammi, che sarà mai”, è l’atteggiamento che si sta facendo strada. Come dire: sarebbe bello che certe cose non accadessero, ma le vere tragedie sono altre».
“Ormai è successo, che vogliamo fare…”, è la difesa del sindaco campano.
«Proprio così. Però la ragazza, con la sua famiglia, è stata costretta a lasciare il suo paese e a trasferirsi altrove. Perché forse ciò che su scala più larga sembra non contare granché, in una comunità piccola conta eccome, ancora oggi. Ecco perché giustificare comportamenti tanto devastanti è doppiamente grave».
C’è una generale aria di dismissione nelle lotte per la parità. La legge sul doppio cognome, materno e paterno, è ormai avviata verso il dimenticatoio. Con buona pace dei paterfamilias.
«C’è da dire che era una riforma a metà: il disegno di legge prevedeva la possibilità di ottenere il cognome materno, su richiesta. È bene che il Parlamento discuta un testo con gli emendamenti proposti: cioè che la normalità sia il doppio cognome e, su richiesta motivata, prevalga quello di un genitore solo. Si tratta di un fatto simbolico molto importante. “Perdiamo anche questo”, si devono essere detti i maschi. Senza pensare che società tradizionalmente maschiliste come quella spagnola lo considerano un fatto normale».
Anche le campagne sul linguaggio, spesso proprio per colpa delle donne, rischiano di apparire battaglie di retroguardia, persino un po’ ridicole.
«Invece vanno fatte, perché servono. Sono battaglie necessarie, anche per ribadire che un direttore donna è una “direttrice”, e che il vincitore di un premio, se è una donna, si dice “vincitrice”, senza che ciò comporti una minore considerazione. Perché sennò diventa normalità il contrario».
Mentre noi discutiamo di parole, Trump simboleggia la vittoria del maschilismo su scala globale.
«E di molti altri aspetti negativi, in realtà. Trump è la sconfitta di chi non ha capito cosa stesse accadendo all’America, dall’impoverimento al sentirsi stranieri in casa propria. La vittoria di Trump è semmai la dimostrazione che anche il maschilismo più trash non produce un danno politico. In fondo, non è poi così grave, hanno ritenuto gli americani. Esattamente come accadeva a molta parte dell’elettorato di Forza Italia, magari intimamente disgustato dal comportamento di Berlusconi nei confronti delle donne, ma tutto sommato convinto che fosse una questione marginale, rispetto ad altri aspetti più importanti da considerare».
Qualche settimana fa Debora Serracchiani ha sollevato molte polemiche con questa frase: “La violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre, ma più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza”.
«Io mi rifiuto di fare graduatorie dinanzi a un gesto di violenza. Ma se proprio vogliamo farne, il discorso andrebbe rovesciato: è molto più riprovevole che una violenza sessuale arrivi da un individuo appartenente al nostro mondo, con tutti gli strumenti culturali e sociali a disposizione per rendersi conto della gravità del suo gesto».
Però, il ragionamento di Serracchiani una cosa evocava: la visione delle donne nel mondo degli immigrati. Che rischia di entrare in cortocircuito con tutti i nostri sforzi per la parità.
«Per cominciare, non tutte le culture migranti hanno un atteggiamento di negazione dei diritti delle donne, quindi trattarli in modo omogeneo, come se fossero tutti uguali, non ci aiuta a capire…».
Ha ragione. Distinguiamo, allora: parliamo dei migranti provenienti dall’Africa subsahariana…
«Ecco: lì, è vero, le donne contano niente. Ma il problema è lavorare sull’integrazione. Non posso aspettarmi che conoscano le nostre regole giuridiche o che nel giro di qualche mese interiorizzino i nostri valori. È un lavoro importantissimo da fare: diffondere una cultura delle regole, a prescindere da ciò che intimamente pensano, ad esempio, delle donne. Attenzione però anche ai messaggi contraddittori che diamo: prendiamo uno di questi migranti che già è cresciuto con l’idea che una donna non valga niente. E mettiamolo davanti alla tv, alla pubblicità, a una di queste ordinarie scene di sessismo: non è così immediato che colga il confine tra ciò che è lecito e illecito».
Dopo i fatti di Colonia, i paesi del Nord, Germania in primis, hanno proposto corsi di educazione sessuale per gli immigrati. Le sembra realistico anche da noi?
«Certo: dovrebbe far parte della cultura civica spiegare agli immigrati le relazioni uomo-donna e il rispetto delle donne: a partire dal diritto delle ragazze di andare a scuola e della loro libertà nel vestire. C’è un abisso tra i nostri programmi di integrazione, con poche ore di italiano alla settimana, e gli investimenti che si stanno compiendo in altri Paesi. Con l’accoglienza di massa tutto ciò non è possibile. E le comunità locali, giustamente, si arrabbiano: ma abbiamo idea di quanto lavoro si riuscirebbe a generare se si investisse in una formazione a tutto tondo?».
Non dare messaggi contraddittori, ha detto. Sta crescendo una produzione libraria per giovanissime che punta proprio a educare contro gli stereotipi e contro il maschilismo. Le sembra utile?
«Sì, tutti questi libri rivolti oggi alle ragazze possono decisamente servire a far maturare una maggiore consapevolezza. È un fenomeno molto bello che sta emergendo: la risposta che giovani madri cercavano per avere strumenti a disposizione per le loro figlie. Del resto, negli ultimi anni c’era stata una ipertrofia nella distinzioni tra giocattoli, libri, abbigliamento per maschi e femmine. Questo cambio di rotta, invece, è un buon segnale. Che la stessa Disney, dopo anni di sdolcinate principesse, ha dovuto imboccare, cominciando a proporre figure libere, autonome, con un destino diverso da quelle in attesa soltanto del principe azzurro».
A dimostrazione dei grandi passi ancora da fare, infuriano intanto le polemiche per il gender nelle scuole. Da ultimo è il neosindaco di Verona, Federico Sboarina, ad avere nel mirino una manciata di testi da mettere al bando dalle biblioteche.
«Chi protesta contro i libri gender per prima cosa mette insieme transessualismo, omosessualità, questioni di identità sessuale. Si parte dall’idea che se io metto in discussione i ruoli sociali non so più cosa sia un maschio e cosa sia una femmina. Mi pare irrispettoso nei confronti di chi vive sulla propria pelle disagi di questo tipo. E molto pericoloso per una società che punti a una vera parità tra uomini e donne: un modo simile di ragionare produce stereotipi tra i più tradizionali».
Fonte: espresso.repubblica.it