Strasburgo ha rigettato il ricorso italiano contro la condanna dell’Italia per non aver adeguatamente protetto e una donna e il figlio dalla violenza domestica. Per Titti Carrano, presidente di DiRe la rete dei centri, si tratta di una sentenza storica che indica due linee guida: applicare le normative con celerità e riconoscere il ruolo dei centri.
«L’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani per non aver agito con tempestività nel proteggere una donna e il figlio dal marito che ha poi ucciso il ragazzo e ridotto in fin di vita la donna, La sentenza è dello scorso marzo, il Governo italiano ha presentato un’istanza di fronte alla Grande Camera che ora lo ha definito inammissibile. La condanna è definitiva e per così dire storica». È decisa la voce di Titti Carrano, presidente di DiRe (Donne in Rete contro la violenza) coordinamento di 80 associazioni che gestiscono centri antiviolenza un po’ in tutta Italia. Per Carrano è quanto mai necessario che il governo italiano prenda atto di una sentenza che mette in fila «le mancanze e le inadempienze del sistema.Il problema non è la normativa, non serve necessariamente una nuova legge serve invece che le norme vengano applicate e che si smetta di sottovalutare le denunce di violenza», continua. «Le inadempienze sono tante sia come prassi giudiziaria sia sul fronte dei tempi lunghi per l’accesso alla giustizia».
Oggetto della sentenza è il caso Talpis. A ricorrere a Strasburgo nel 2014 era stata Elisaveta Talpis che prima della tragedia aveva denunciato il marito, ma ricorda ancora Carrano «da una parte non era stato riconosciuto lo stato di vulnerabilità e dall’altro dopo che era stata accolta in emergenza in una casa rifugio per tre mesi, il comune di Udine ha rifiutato di assumere gli oneri di spesa perché la casa rifugio non aveva ricevuto preventivamente l’autorizzazione…».
Per la presidente di DiRe questa sentenza inoltre arriva in un momento in cui «stiamo registrando numerose violenze sulle donne e femminicidi. Io mi sarei aspettata che nel marzo scorso, il nostro governo si assumesse tutte le responsabilità del caso, correggendo un sistema di protezione che è inadeguato. Con la sentenza ora il governo deve dare applicazioni alle storture del sistema. Prenda atto di questo stato di cose ed intervenga». Occorre uno scatto «chi è chiamato a intervenire deve essere formato, deve specializzarsi perché finché non si distingue tra conflitto e violenza non si va da nessuna parte». Un altro aspetto importante è anche la necessità chevenga riconosciuto «il ruolo dei centri antiviolenza per la prevenzione e il sostegno alle donne».
Nonostante i fatti drammatici si ripetano, nonostante le denunce (come dimostrano anche gli ultimi casi di cronaca) «le risposte continuano a essere inadeguate. C’è una sottovalutazione del rischio», continua Carrano. «Basti pensare al dramma recente delle due giovani ragazze assassinate, le famiglie avevano denunciato…». E c’è da aggiungere l’applicazione a macchia di leopardo della stessa legge civile sull’ordine di protezione «anche qui è una questione culturale».
Per la presidente di DiRe accanto alla necessità di applicare tempestivamente le leggi esistenti occorre riconoscere il ruolo dei centri antiviolenza che a oggi non sono pienamente riconosciuti. «Da trent’anni accogliamo le donne a 360°. Il nostro intervento punta all’empowerment femminile e inizia con l’accoglienza telefonica, l’helpline è il punto in cui si avvia la relazione cui seguono colloqui, la consulenza, ci sono gruppi di sostegno e l’ospitalità nelle case rifugio, sostegno a progetti di lavoro o con i figli» spiega Carrano che osserva come tutto questo lavoro «non è pienamente riconosciuto. Si identificano i centri come servizi sociali, ma i centri antiviolenza sono luoghi pensati da donne per aiutare le donne».
Cosa aspettarsi quindi? «Noi ci aspettiamo interventi strutturali, azioni precise e concrete come il pieno riconoscimento dei centri antiviolenza» conclude.
Fonte: vita.it